Dopo Book Pride, avendo visto il tam tam socialmediatico causato da questo libro, e fidandomi della casa editrice NN Editore (un libro della quale ho recenzito qui: Kent Haruf —> QUI LA RECENSIONE), mi sono accattato via Ebook il seguente:
A misura d’uomo
Di Roberto Camurri, emiliano al suo romanzo d’esordio.
Questo libro mi è piaciuto molto (i libri che non mi piacciono non arrivano al sito, tranquilli, #solocosebelle) e a testimonianza di ciò, il bel libro mi ha causato due notti quasi insonni, per poterlo leggere.
Già perché, come i buoni libri sanno fare, mi ha incollato alle pagine e mi ha teletrasportato in modo accennato e svogliato fino a Fabbrico, in provincia di Reggio, ma dove l’Emilia è ancora quasi Lombardia, o viceversa.
Il romanzo è un romanzo “per racconti”, cioè raccoglie delle istantanee in movimento, in cui si muovono dei personaggi provinciali, che conducono una vita provinciale, in un posto estremamente provinciale.
E poi in pianura.
Non c’è nulla di più provinciale della pianura. Prendi Lodi, per esempio.
Perchè in montagna sei un montanaro, al mare sei un marinaio, sull’appennino sei da solo, ma in pianura, in quella pianura che è la padana senza la “i”, che molti vorrebbero assurgere a nazione, sei solo un provinciale.
E lo dico da provinciale, sia chiaro. Non mi sconvolge il colore o il credo di una persona, figuriamoci l’orografia della sua zona di provenienza.
Ma la pianura è la pianura. È orizzonte interminabile. È strade e semafori e rotatorie e a volte un cavalcavia ed autovelox. È fiume lento e costante, è campi e nebbia e poca voglia di cambiamenti.
È bar identici in cui cambiano solo i superalcolici più bevuti e l’accento con cui vengono chiesti.
Ed in questo teatro senza quinte, senza fondali, si muovono i personaggi di Roberto Camurri.
Vicini di casa, conoscenti del bar. Non sono veri e propri personaggi, ma persone.
La copertina di A misura d’uomo
Lo stile di Roberto Camurri
La scelta di scrivere il romanzo per racconti mi ricorda la vita vissuta in provincia: tante storie isolate, che si toccano di rado, indipendenti e ignare di far parte di un unico tomo rilegato, che chiamano, non a caso, storia.
Ed è una scelta boh, coraggiosa? necessaria? Non lo so. E non credo mi interessi il “perché” sia stato scritto così.
Sta di fatto che funziona e molto bene. Funziona nell’avere archi di trasformazione dei personaggi che tendono, più o meno, al peggioramento. Sono archi tesi, diciamo, come in guerra. La guerra della quotidianità, che ognuno conduce contro gli eserciti di sé stesso, delle sue viltà e paure.
A differenza di molti altri scrittori, Roberto Camurri non condisce la miseria umana, la disperazione ed i fantasmi di ciascuno con trovate da commedia, edulcorando il flusso con una spolverata di risate.
Qui non si ride per niente. Non si accenna a voler sdrammatizzare il dramma, perché forse nemmeno i personaggi (ops, le persone) che vivono nelle pagine di “A Misura d’Uomo” non riescono a riconoscere la drammaticità della loro situazione.
Sì, la percepiscono, si accorgono, come un cane a bordo strada, ma non razionalizzano, non agiscono in direzione volontaria. Sono tutti un po’ sballottati dall’evenienza, dalla convenienza, dalla viltà.
Tutti tranne Anela. Che vive l’amore, il lutto e poi l’amore con stoica solidità d’animo. Con scelte che vanno al di là della mera convenienza. Anela forse ama l’amore, più che le persone. Ama vederlo agire, e curare e abbronzare le persone che si lasciano accarezzare da quell’energia.
E al contempo assiste al degrado e allo sfacelo, lento, promosso dal tempo che gode nell’aggiustare solo quello che vuole lui, se lo lasci fare di testa sua.
La Storia di “A Misura d’Uomo”
Senza troppi spoiler, in sintesi, il libro narra di una compagnia di quattro amici, che per un motivo o per l’altro si sono trovati a guardarsi le spalle l’uno con l’altro. Tra sigarette, ubriacature e caffè corretto sambuca, hanno visto passare trent’anni di Fabbrico, con le sue stagioni e le sue morti. Con i suoi nati, le dicerie, ignorate dai protagonisiti e perfino dal narratore, ma che sembra di percepire, mentre si legge.
Fine.
Spetta spetta. So che potrebbe sembrarti poco, ma non lo è. Non lo è proprio per un cazzo.
Perché questo libro, punta un dito lungo sei metri proprio sugli “invisibili” che hai a fianco al supermercato. Gli invisibili di cui non ti curi minimamente quando ritiri i figli da scuola.
E ne trascrive la dramamtica vita.
Finzione? Mah. Non credo.
Una bellissima operazione intellettuale, a mio parere.
A prescindere dalle etichette che potrebbero, appiccicose, essere messe sul libro catalogandolo come “iperrealista”, “verista” o che ne so io, Roberto (consapevolmente o inconsapevolmente, non lo so, non è importante) affida alle mani della letteratura il compito di elevare una quotidianità provinciale a epicità, a storia d’insegnamento.
Elevare quelli che sono dei drammi vicini, carnali, impellenti, ad un’essenza immanente, presente ovunque nelle provincie del nord. Ovunque.
Perfino tu conosci almeno un ubriacone che si è schiantato con l’auto, almeno un vecchio matto, almeno una “strega” del paese. Ed invece che scegliere i modelli “vincenti”, Camurri sceglie gli “eterni perdenti” come archetipi di una realtà a tinte forti e quasi animale.
E a me quest piace molto. Piace per scelta, ed intravedo un passato nel sociale, in ascolto, a fare quel mestiere che ti porta ad ascoltare, in disparte, la vita degli altri, ad esserne un enzima riparatore, con la sfida (impossibile) di restare immutati dalla relazione. Al servizio.
Seduto sugli argini di un alveo in cui vedi scorrere la vita, e, per oggi, decidi di guardarla e basta, e di non farci il bagno dentro, trascinato dalla corrente. E questi oggi diventano anche ieri e domani. E ti rialzi dal fosso che hai quarantacinque anni, la pancetta e due figli.
La corrente che trascina Davide, Valerio, Mario, Luigi, la Bice e Giuseppe. E che Camurri descrive come fossero bastoncini galleggianti nei rivoli e nelle circonvoluzioni che la corrente porta da un capo all’altro, dalla sorgente alla foce, finché tutti, prima o poi, si arrivi al mare.
Perchè leggere “A misura d’uomo” di Roberto Camurri
Leggere questo libro è un viaggio in macchina nell’afa e senza condizionatore. È un libro non dotato dei migliori comfort. E per questo è bello. Da matti. È la Volvo che passa di mano da Davide, ad Anela e poi a Valerio, e poi a te.
Una macchina scassata, imperfetta, che arranca. Lo stile non lubrifica i suoi ingranaggi letterari e, in definitiva, consegna al lettore un diamantino.
Coperto di condensato 0,8 e nicotina 1,0.
E caffè corretto sambuca.
Sta a te decidere se quei gusti forti ed economici possono entrare nella tua quotidianità e mostrarti, definitivamente, che la provincia non la scegli, ce l’hai addosso e se te ne sei liberato ti sta alle calcagna con i ricordi.
Sta a te decidere se vuoi ancora un libro in cui ci si commuove per gesti e passioni tra amici, e non tra banalità da amanti.
Nel caso avessi scelto, non resterai deluso.
Questo è un libro forte, vibrante, asfaltato e con le buche di una vita addosso.
Un libro più autentico della vera verità, perché affrancato dalla menzogna e dalle menzogne che ogni giorno ci raccontiamo, per poi trovarci in una bara di pentimento, in mezzo a milioni di “ma se avessi” o di “avrei potuto”.
E Camurri ha il grande pregio, rivoluzionario e coraggioso, di narrare e non giudicare. Di raccontare e basta. Di non alzarsi mai (Dio non voglia) da quel freddo, da quelle stagioni, dall’orizzonte lontano e infinito, di questa enorme e spaventosa pianura.
In un mondo di perfetti, cosa resterebbe da migliorare?
Bravo Roberto.
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