Uazzamerigan.
Ho letto questo libro di Chiara Barzini, Terremoto (Mondadori, 332 pagine, 16,15 € acquistabile da link affiliato QUI —> COMPRA LIBRI NON PETARDI), che racconta dell’adolescenza di Eugenia, figlia di un regista barra sceneggiatore, strappata ad una città romana e scaraventata in una casetta a Van Nuys.
Certo, la storia di per sé non è un high concept pronto a diventare un film, perché di intreccio non c’è nulla.
Ma solo una lenta e placida sequela di avvenimenti.
Fino al terremoto.
I Terremoti di Chiara Barzini
Eugenia, come detto poche righe fa, viene presa per una caviglia e lanciata contro una finestra americana, losangelina. Una finestra chiusa, però.
Vediamo gli schizzi di sangue splattarsi su un vetro che non si apre mai del tutto, e che colano, necessariamente, verso il basso.
Ecco quindi che Eugenia, un po’ per noia, per ricerca d’attenzione, per rivolta, raccoglie ciò che la suburbia le propone in modo quasi asettico, protetta da un “vestito di gomma”, che la difende dagli altri, dalle emozioni.
Un modo per scappare (scampare) dall’impegno ed al radicamento, ove la terra non fa mettere radici.
Un modo, forse, per non assumersi la responsabilità profonda di ciò che accade, in balia di una fatalità imponderabile che rassomiglia alla quiete appiccicosa e caldoumida di Los Angeles, tra un terremoto e l’altro.
La contrapposizione costante che si trova tra la città e la natura, ancora fortemente pressante contro i limiti della “civiltà” (che di civile ha gran poco, tra sparatorie, pompini, erba e droghe in quantità, intrallazzi tra produttori, eccetera), porta Eugenia in qualche momento di pace, in cui sono gli elementi, più che le persone, a mettere a tacere il mal di vivere.
Cielo, vento, foglie, ma anche vicodin, MDMA, erba.
Una lunga storia di una diciassettenne che non riesce ad individuare un “papà” ed una “mamma”, ma solo due nomi propri, troppo identificati nei loro ruoli di regista e produttore (lui) e di santificato esempio di sacrificio (lei), per poter abdicare al loro “io” e dedicarsi ai figli.
In questo modo, tutte le persone che entrano in contatto con Eugenia, finiscono per essere parificate, identiche, tutte persone da cui difendersi o da cui aspettarsi, appunto, un terremoto.
Che sia il trasferimento coatto da Roma a Van Nuys all’isoletta sperduta dove fanno le vacanze obbligate, ogni essere vivente è (o diventa) un pericolo da cui bisogna difendersi.
Per cui meglio non togliere mai, questo vestito di gomma.
Eppure.
Eppure una storia d’amore c’è, ed è un amore ancora appiccicaticcio e sudato, carnale. Lesbico. Profondo e vibrato.
Amore per Deva, figlia di un musicista sull’orlo del decadimento, che ricambia in modo artefatto l’amore di Eugenia. Che recide con molta calma (data dai farmaci), proprio come prima di un terremoto.
L’ambientazione di Terremoto
Forse la cosa più bella del libro, che avendo una storia molto lineare non entusiasmerà gli adepti dell’intreccio romanzesco, è proprio la descrizione apatica di una città difficile, tormentata.
Ogni picco emotivo deve, per sopravvivenza, essere appianato, abraso dalla coscienza, a costo di farlo crescere male e malevolo all’interno della mente. Bisogna zittirlo ad ogni costo, in ogni modo. Uno spaccato anni ’90 che sa di ascelle, nudità dalla vaga peluria, di adolescenza anonima e travagliata. Di sofferenza evitabile, ma inevitabile.
Cosa c’è di buono in questo libro?
La passione e la vita che scorre, i personaggi ben presenti e piantati. Tutto ruota intorno ad Eugenia, perdio, e va bene che sia così, ma, forse, questo “centro del mondo” si è accorto che non tutto ruota intorno a lei; e a volte la vita ti prende per una caviglia, ti strappa il vestito di gomma, e ti scaraventa su una finestra a Van Nuys, a rimirare i tuoi rivoli di sangue, ad accorgerti del dolore, ad aspettare ancora un tramonto, prima di toccare il fondo.
Roma è lontana, Roma è la capitale della provincia, che perde la gara della grandiosità contro una Los Angeles più illuminata, più veloce, più rischiosa, più rumorosa.
E così il peregrinare americano non fa altro che rinforzare l’impressione che, forse, al posto di venire scaraventati è il caso di scaraventarsi, di lanciare il costume e buttarsi nel mare
Che anziché prendere a testate la vita, forse questa vada solo schivata, e ricondotta docilmente nei ranghi del sopportabile.
Ritratto di Chiara Barzini Credit: Jeannette Montgomery Burron 2017