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Poesia Fascista

    Poesia Fascista

    Perché a volte sono semplici sorrisi.

    Guido un’auto a noleggio
    su una strada nera
    mentre cambio
    le stazioni dell’autoradio
    mi casca l’occhio
    sul portachiavi
    con la X scritta rossa
    su fondo azzurro
    e un teschio sopra
    souvenir
    di un pomeriggio in gita
    in provincia di Forlì-Cesena.

    “Che è stato bellissimo” mi ha detto quello
    dell’autonoleggio.

    Arrivo parcheggio
    e tra i palazzi
    qualche svastica scampata
    al gioco dell’impiccato mi suggerisce
    che le bombolette nere
    costino meno delle altre.

    Entro, l’usciere mi saluta, mi dice il piano
    la visita è alle quattordici e trenta, sono
    in anticipo, mi allunga due giornali
    e sul polso un memento
    che non è “mori” ma “audere semper”
    inchiostrato
    e mi chiedo che sangue scorra
    nella sua mano quando accarezza
    qualcuno che ama davvero.

    La sala d’aspetto ha un tavolino
    con il piano di vetro e sopra
    un coso che sembra un fermacarte
    ed un pedone degli scacchi insieme
    ma guardo bene è lui, il suo profilo,
    visibile da ogni angolo è un pezzo
    di apprezzato design.

    Il medico non lo conosco, mi hanno detto che è bravo
    è il mio turno, la visita dura poco
    mi dà due dritte sulle sigarette, sulla dieta.
    Sotto il camice la collanina
    d’oro a catena sottile
    come quelle del battesimo
    e la piastrina dice che lui
    non dimentica.

    Pago, mi dice, facciamo in nero?
    Mi dico che è coerente. Sorrido

    Guido all’indietro
    e penso che strana coincidenza,
    così tanti segni insieme, in una mattina
    di questa assenza presenza nera.

    Avvolgo le chiavi e il portachiavi nel polsino
    della giacca quando
    sorridendo le restituisco
    forse perché ho paura del contagio. Non saprei.

    Il meccanico ha la mia macchina
    e me la restituisce con un sorriso.
    Ho fatto i filtri e l’olio e ti ho cambiato
    la lampadina della freccia
    era rotta
    te la regalo.
    E chiude i miei occhi il suo bicipite
    scolpito e maschio
    in maglietta in questo marzo
    ancora freddo
    e da sotto l’orlo si vede
    solo quel mento esagerato
    completo il ritratto
    immaginando lo stile
    fino al copricapo africano.

    E finisco la giornata
    parcheggio,
    dopo queste
    nere dune,
    mi vengono
    a prendere tra poco
    il tempo di una doccia
    poi sono a cena con amici
    di amici di amici
    che dobbiamo fare una cosa
    per lavoro.

    Il mio vicino chiude il garage
    e vedo il calendario
    nostalgico sopra
    il banco da lavoro dove ripara
    le biciclette delle figlie.

    La cena è buona e pagata
    il vino ottimo (si dice così?)
    tanto non me ne intendo
    ma quando scorre siamo
    tutti un po’ più amici,
    come se aggiungessimo
    tempo al tempo in cui
    ci siamo conosciuti
    e tutti sono un po’ più liberi.

    Al quarto amaro pieni
    di risotto ai funghi e di carne arrosto
    che ci hanno portato anche una salsa
    che scioglieva l’anima
    tanto che era buona e cara
    hanno salutato tutti il capo
    (quello che pagava)
    alzando il braccio
    scoppiando a ridere.
    Io no perché ero lì per lavoro
    e poi non li conoscevo bene
    cosa fai?
    Vuoi essere diverso da loro?

    Guido (se mi ricordo bene)
    stava a fianco a me, gli avevo
    versato il vino
    lui mi aveva passato i grissini
    e mi ha fatto vedere
    sull’iPhone
    una foto della moglie a Livigno
    dei figli al mare, un santino di Maria
    che scioglie i nodi che era di sua mamma
    e poi quell’altra foto.
    Erano in tanti.

    “È stato bellissimo” mi ha detto.

    E mi dico che alla fine
    preferirei un fascista che mi mena
    a questo Guido
    che mi guarda
    in giacchetta e cravatta
    e mi sorride.

    A letto un po’ scosso
    dal vino e dagli amari
    e un po’ da tutte le coincidenze
    (perché sono coincidenze, vero?)
    mi sono chiesto come è che
    una roba così si possa
    anche solo sussurrare
    con risolini tra labbra rosa
    e carni bianche.
    Come non si possano vagliare
    altre più produttive alternative
    a questo pensare.

    Penso a come questo sia diventato
    folklore,
    crescente e
    se mai accada
    che per un ritorno di fiamma
    ancora ci scotteremo
    cedendo
    e se dovessero tornare
    azioni che mi impediscano
    di dire quello che intendo
    e di scrivere robe
    come questa,
    allora
    mi farò un vestito a righe di versi
    e qualora dovessi sparire, insomma,
    mancare
    per mano di una polizia a regime
    o per un qualche giovinetto irrazionale
    so che inviolato e sorridente
    io c’ero, ero sveglio.
    E vi ho visto arrivare.

    – Novembre 2019

    Photo by Jeremy Bishop on Unsplash