Genovesi, di cui allego foto segnaletica, è un uomo che scrive (vorrei dire dannatamente ma dannatamente è una parola che odio) schifosamente (no, aspetta), diabolicamente (non è molto meglio di dannatamente ma rende) bene.
E questo lo capisco da un preciso movimento interiore, sottocutaneo, che è quella vibrazione che ci fa distinguere un’opera d’arte da un semplice pezzo d’artigianato.
Io piango.
Ogni volta che Genovesi spinge un libro fuori dalla sua penna, io piango.
E questa volta, ancora di più, e ancora più presto degli altri suoi libri.
Già con “Chi manda le onde” i momenti commoventi non mancano, ma ne “Il mare dove non si tocca” non ho resistito e già a pagina 20 avevo gli occhi lucidi e la voglia di vedere il mare.
Non che ci fosse motivo, ma a me la sua “gente”, la sua popolazione, commuove.
Vedo persone che mi sembra di aver conosciuto, di averci parlato due minuti in coda alle poste.
Gente che conta i soldi, nel senso che impila le monetine e divide quelle da due euro da quelle da cinquanta centesimi da quelle di rame.
Che decide che diecimila lire di vaschetta di gelato sono sufficienti per festeggiare un compleanno.
Chi sa che quando sei povero, non è che devi raggiungerla la povertà, e cento ilire di meno non ti rendono più povero di quanto non sia.
Persone silenziose, i suoi “caratteri” non sono commedia dell’arte. Sono fuori da ogni cliché perché sono i tuoi vicini di casa. È la storia degli amici di tuo padre, o di tuo nonno, è un racconto “di vecchi” raccontato da un bambino che l’ha vissuto come un’opera epica.
Sempre mi incanta leggere questo groviglio di vite che è la realtà raccontata da Genovesi, un pendolo che oscilla tra il magico, il fantastico, e ad ogni angolo sbatte contro la realtà.
Genovesi disegna ogni biografia come uno svolazzo calligrafico un po’ incerto, sulla pagina di terra che vive, in perenne attenzione a non bucare il foglio.
E che così facendo, prova a ruzzare avanti una vita un po’ fuori controllo, i cui confini sono dati in larga parte da “gli altri”.
Gli altri che vengono vissuti dalla famiglia Mancini un po’ con spavaldo menefreghismo ed un po’ con la paura della vittima prima del macello.
Per dirla come uno degli Azii (gli zii di Fabio hanno tutti nomi che iniziano per A):
La paura è un ragnetto che ti distrae mentre la vita te lo mette nel culo
Fabio è il protagonista, ed è un poeta. Piccolo, ma già poeta. Tutto intorno a lui è filtrato dalla sua mente ed è bellissimo leggere questo percolato di realtà che mette in discussione i più antichi principi di causalità per dire: “la realtà non è ciò che sembra, è ciò che vedi”.
Come Luna, come tutti i bambini “eletti” da Fabio (quello che scrive, non quello che vive nel romanzo) a protagonisti, anche Fabio (quello che vive nel romanzo, non quello che scrive), è l’unico vero metro del mondo che lo circonda.
E se il mondo non capisce la sua poesia, terribile e bianca al contempo, sono fondamentalmente cazzi suoi.
Un romanzo in cui, tra la sfiga ed il mare c’è sempre una via di mezzo, un filo teso su cui camminare, un filo d’amore e di sincero respiro che salda la trama anche in questo scritto.
Romanzo d’amore? Forse, altrimenti perché scriveremmo, se non per amore?
L’amore, per Fabio (quello che scrive, non quello che vive nel romanzo), pare essere un mistero che si può evincere solo dalle sue rare manifestazioni visibili, dettate dalle battute maldestre, dai colpi al cerchio, alla botte ed allo stomaco, che la vita ti onora di subire.
La dichiarazione d’amore più semplice, bella, raffinata e commovente che io abbia mai letto si consuma in un negozio tra il futuro nonno (Arolando) e la nonna di Fabio (quello che vive nel romanzo, non quello che scrive), complice una carta da lettere. Poche pagine da leggere e rileggere per il gusto di gioire del solo fatto che esista.
E, come un rosario di piccoli sprazzi poetici, seguiamo il filo della crescita di Fabio (quello che vive nel romanzo, non quello che scrive), con le sue letture ingenue, sballate, protette (dalla madre) o sostenute dal tifo di questa famiglia allargata, caoticamente compatta.
E alla fine il grottesco prende un timbro talmente ridicolo da sembrare accaduto al tuo vicino di casa.
Se non sei cresciuto in un paesino del cazzo di provincia, non potrai godertelo appieno, io te lo dico. Perché la città lima queste asperità sociali, questi tratti esasperati di fede e blasfemia, questi slanci un po’ insensati e queste azioni impulsive.
La città ti modella, ti sovrasta, ti affonda nei binari di una metropolitana, illudendoti che la velocità sia la chiave poter decidere qualcosa della tua vita.
La provincia invece ha le sue liturgie, i suoi riti e le sue regole tacite, spessissimo in forte intreccio con la natura che la circonda, che vi preme addosso.
La natura, con la sua pressione, scassa il pavé, crepa l’asfalto, mette radici nei muri se non la tieni a bada e ti ricorda che alla fine, ha sempre ragione lei.
E se hai le mani sporche di terra, questo te lo ricordi fin troppo bene.
Il mare dove non si tocca è quindi il luogo, anzi, il capoluogo di provincia dell’apprendimento di queste regole naturali, che funzionano e fanno rotolare il mondo, o che funzionano proprio in virtù del fatto che il mondo rotoli.
Il luogo dove, per necessità, sbuca la virtù, e ne fa eroica vittoria sulla paura, specialmente quella di vivere.
Il mare dove non si tocca è un libro da leggere, e grazie ancora Fabio (sia quello che scrive sia quello che vive nel romanzo), perché hai lasciato un’altra traccia da guardare, sul bagnasciuga del tempo.
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